UTA. L'ultimo caso di un suicidio in carcere è stato registrato ieri a Uta e porta a 32 il totale delle vittime del 2024 in Italia. Trentadue. In poco più di tre mesi.
Un bilancio che include non solo detenuti, ma anche tre poliziotti penitenziari, testimoni dell'insostenibile pressione di un sistema carcerario al collasso. Trentadue suicidi in carcere non sono semplici statistiche. Rappresentano storie di individui che, dietro le sbarre, hanno perso ogni speranza. Non si tratta solo di ergastolani o criminali incalliti: tra le vittime ci sono persone arrestate per reati minori, come il 32enne di Cagliari, che ha scelto di porre fine alla propria vita nella disperazione di un ciclo infinito di detenzioni. Si dice che una società si possa giudicare dal modo in cui tratta i suoi prigionieri.
Si dice anche che, a volte, è difficile riconoscere fatti drammatici per via della frequenza con cui si verificano. I numeri però sono inequivocabili e lanciano un allarme sistemico che non può più essere ignorato. La disperazione che spinge un individuo a togliersi la vita in carcere è un sintomo di un disagio più profondo, che interpella direttamente la coscienza collettiva e le istituzioni responsabili della gestione del sistema penitenziario. E no, non si può ricondurre tutto al problema, esistente, della carenza di personale. È necessario un dialogo costruttivo per affrontare e risolvere queste criticità: il grado di civiltà di una nazione si misura anche dalla capacità di garantire dignità e speranza a chi ha perso la strada