CAGLIARI. Chiunque lo abbia conosciuto non ci ha visto un ragazzino normale. Perché Matteo Porru non lo è, normale. Ma solo nel senso che, Treccani alla mano, non è "consueto, ordinario, regolare".
Ha diciotto anni, ma usa giacca e cravatta. E trench, quando fa più fresco. Non da oggi, ma da quando è entrato in età puberale. Parla forbito, discute di politica. Quando non era ancora maggiorenne, per ricordare episodi del passato - per forza recente, a causa di incontrovertibili cause anagrafiche - esordiva con "quando ero piccolo". E lo vedevi lì, con la barba che non è nemmeno ancora la peluria giovanile e la pelle liscia di uno che se dimostra 14 anni è già tanto. Ora Matteo ha vinto il premio Campiello Giovani con il suo Talismani. Se lo merita, perché è bravo.
E con un post su Facebook si racconta. Poco, ma cerca di spiegare chi è stato, perché scrive. E dedica la sua vittoria a Francesca, che ha "una spolverata di lentiggini sugli zigomi e occhi color montagne".
Cari amici, cari lettori,
Sono profondamente onorato di aver ricevuto, dalla Giuria dei Letterati del Premio Campiello, il titolo di vincitore della ventiquattresima edizione. Per la prima volta in vita mia, lo confesso, non penso di poter trovare delle parole che mi permettano di raccontarvi, o anche solo di descrivervi, cosa sia stato e cosa abbia significato per me ottenere questo meraviglioso riconoscimento.
L’onore di essere stato premiato si controbilancia perfettamente con l’onere di continuare a scrivere, a migliorare e a non bastarsi mai, in un percorso di crescita umana e di produzione.
Oggi mi trovo diciottenne, con tre romanzi pubblicati, tanti altri in cantiere, e un premio letterario così prestigioso appena vinto. Eppure, quasi come per una caratteristica personale, mi guardo dietro, quasi che avessi uno specchietto retrovisore incorporato nella mia memoria. Ogni tanto aggiusto l’angolazione, per essere sicuro di mettere a fuoco e di guardare, seppur da lontano, gli ostacoli che ho superato.
Negli anni, da quando è nata in me la tendenza a vivere e a vedere il mondo con occhi diversi, sono stato considerato un emarginato: un bambino anormale, che leggeva Montale e andava a teatro, che pensava tanto e giocava poco, che non rideva quasi mai. Mi hanno dato del fallito, del buono a nulla. Ho vissuto anni della mia vita nella totale e più irreparabile solitudine interiore, guardando i fenicotteri dalla finestra di casa, pensando troppo spesso a lasciarmi andare, che non avrei combinato niente, che non sarebbe mai valsa la pena di tutto quel male che immeritatamente, mi stava divorando. Ero un ragazzo fuori dal mondo.
Fuori dal mondo, non dal mio.
Mi sono rifugiato lì, dove sapevo che nessuno avrebbe potuto farmi qualcosa. La penna è stata la mia salvezza. Scrivere mi ha dato la libertà di essere come volevo, come ero davvero, fragile e terribilmente emotivo. Ho riversato sui miei personaggi, sui compagni dei miei sogni, tutto il dolore che avevo dentro. E sono felice e grato, a ognuno di loro, per essersi fatti carico del mio malessere.
Tanta gente mi ha ferito a fatti e a parole, le stesse armi con le quali ho iniziato a combattere, riuscendo a raccontare come vedevo, come vivevo il mondo. E appena ho capito che non avrei mai dovuto aver paura di essere me stesso, sono uscito dal mio.
A quindici anni, ho realizzato il desiderio che avevo espresso, cinque anni prima, nella letterina di Babbo Natale, firmando il mio primo contratto di edizione con Alessandro, l’editore e la persona alla quale devo la fiducia incondizionata e il coraggio di puntare su un ragazzino in giacca e cravatta.
Da allora, ho scritto per amore di farlo. E in tre anni, ho finalmente risposto a una delle domande che mi hanno posto più frequentemente: cosa ti dà la scrittura? Capitale umano: conoscere le vite delle persone, rielaborarle e crearne delle altre su carta; incontrare la gente alle presentazioni, donne e uomini che vedrai poche volte nella tua vita ma a cui devi la fiducia di aver creduto nella storia che hai scritto e di aver fermato la loro per ascoltarne una tua. Il capitale umano di un infinita gamma di sorrisi e sguardi seri, attoniti e incantati, tutti dei piccoli capolavori.
Permettetemi di ringraziare chi, in questi anni difficili e meravigliosi, mi ha fatto diventare chi sono adesso e chi sarò in futuro. Ringrazio mia madre Alessandra, mio padre Stefano, mio fratello Francesco, che mi illumina la vita anche quando fa buio. Grazie ai miei nonni, ai miei zii, ai parenti che ci sono sempre stati.
Grazie ai miei amici, ai miei compagni di classe, a tutti i miei insegnanti. Grazie alla mia casa editrice, al mio editore, alle persone che hanno voluto incontrarmi in questi anni.Infine, concedetemi una dedica. Una persona a me molto cara mi dice sempre che sono un pazzo geniale, o un genio pazzo. Ha una spolverata di lentiggini sugli zigomi e occhi color montagne, si chiama Francesca e questo premio è per lei.
Il Campiello secondo Matteo (Porru): "Mi consideravano anormale, la penna la mia salvezza"
- Redazione