Il rapporto tra politica e guerra è sempre stato influenzato dalle armi dell’informazione e della comunicazione che sono in grado di modificare la percezione collettiva degli eventi e condizionare le diverse opinioni pubbliche, interne o esterne, di qualsiasi popolo e paese coinvolti in un conflitto. Al pari dell’informazione anche la disinformazione ha sempre fatto parte di degli armamenti con cui si può combattere e vincere, oppure perdere, una guerra.
Uno dei primi esempi di disinformazione in tempo di guerra è di certo la falsa lettera del condottiero spartano Pausania al re dei persiani Serse. Si tratta di una fake news datata oltre quattro secoli prima di Cristo. Questa lettera sarebbe stata, secondo lo storico greco Tucidide, la dimostrazione di un alto tradimento in quanto Pausania avrebbe offerto Sparta e la Grecia al Re di Persia in cambio della mano della figlia di quest’ultimo. Una lettera falsa che però fece in modo che Pausania, caduto in disgrazia e vittima di una congiura organizzata dai suoi avversari politici, dopo un processo farsa fu condannato a morte.
In tempi che sono a noi più vicini ci basta citare le recenti guerre del Golfo e in Jugoslavia che sono stati di certo i primi due esempi di conflitti raccontati interamente dai mass-media televisivi. Conflitti durante i quali i telespettatori di tutto il mondo hanno potuto assistere praticamente in diretta alle scene dei pozzi petroliferi in fiamme nel Kuwait, al bombardamento statunitense di Baghdad, ai carri armati sloveni vicino a Gorizia e agli attacchi serbi contro i bosniaci. Conflitti in cui la disinformazione ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle scelte e ha modificato la percezione collettiva degli eventi. Ormai è tristemente nota la vicenda delle “armi di distruzione di massa” (che secondo gli Stati Uniti e l’amministrazione Bush erano in mano a Saddam) che diede il via alla guerra in Iraq ma si rivelò poi una fake. Una notizia falsa orchestrata ad arte dalla CIA e dai servizi segreti occidentali per spingere una coalizione di Stati alla rimozione di un regime “scomodo” per gli USA. Come ben evidenziato anche nel rapporto conclusivo delle Nazioni Unite del 2004.
In una guerra, qualsiasi guerra tradizionale, è sempre davvero molto difficile riuscire a raccontare in modo obiettivo e imparziale i fatti. Meno che mai avviene mentre questi fatti accadono e vengono vissuti dal cronista nei luoghi dove si combatte. I tanti conflitti, apparentemente dimenticati, le tante guerre combattute, spesso con armi occidentali, ad oriente e nei tanti sud del mondo sono tutti uniti dalla sottile linea rossa di informazione “embedded” che in qualche modo dipende sempre dalla parte in conflitto che la ospita. E a questo tipo di giornalismo, che comunque è meno libero in quanto costretto a percorsi guidati fin dall’origine, si uniscono le azioni fraudolente e mirate di disinformazione compiute dall'una o l'altra tra le parti in causa.
Oggi, a tutti questi aspetti che stanno a monte di qualsiasi informazione venga diffusa in tempo di guerra si sovrappongono i moderni flussi di comunicazione digitale a cui siamo ormai abituati. Flussi incrementabili in modo esponenziale attraverso il passaparola sulla rete, che riporta notizie e fatti che non sono più verificati o verificabili attraverso fonti certe e ufficiali e si diffondono caoticamente passando “da molti a molti”.
Nel 2006 la rivista Time incoronò ognuno di noi persona dell’anno. Pubblicando un intrigante “You” sulla copertina con la scritta “Yes, you. You control the Information Age. Welcome to your world”. In questi 16 anni ci siamo resi conto a nostre spese di come sia vero esattamente il contrario.
Centinaia, migliaia di ultramoderni e velocissimi new-media digitali diffondono le news e le fake-news riguardanti eventi bellici o aspetti sociali, economici e sanitari allo stesso modo e con la stessa superficiale disattenzione con cui si diffondono il gossip o le news di costume. Quanto avvenuto negli ultimi due anni, sui social e sul web, riguardo la pandemia Covid rappresenta un ben triste esempio di questo aspetto della comunicazione deviante e virale. Appare ovvio quindi si creino pericolosi cortocircuiti mediatici, informativi e digitali, che oggi sono sempre più in grado di incidere pesantemente nella realtà dei fatti e nel quotidiano di tutti.
Quindi ci troviamo di fronte ad una pericolosa miscela composta di notizie reali e fake news che, grazie alle nuove tecnologie digitali, vengono distribuite capillarmente e in modo sempre più pervasivo e veloce. Nello stesso modo altrettanto veloce e superficiale tali informazioni arrivano agli utenti sulla rete e vengono assorbite dall’opinione pubblica e dall’immaginario collettivo.
E si velocizza di conseguenza anche il formarsi nell’opinione pubblica dei diversi paesi, di idee e opinioni divergenti, inconsapevoli, mutevoli, irreali e anche surreali su come i rispettivi governi debbano gestire, guidare o considerare gli eventi sociali ed economici oppure i conflitti e le guerre.
Le nostre realtà iperconnesse alimentano questa miscela informativa incontrollabile ed esplosiva che nessuno di noi (si tratti di un professionista della comunicazione o di un semplice utente e fruitore cambia poco) sarà mai realmente in grado di conoscere, comprendere e maneggiare appieno. E ogni informazione può esploderci facilmente tra le mani. Ecco perché, parlando di guerra, veniamo facilmente catapultati in quell’immaginario culturale immediato/non-mediato da interventismo “istantaneo” che nel nostro paese ricorda Filippo Tommaso Marinetti e le avanguardie futuriste inneggianti alla guerra come “sola igiene del mondo” all’inizio del secolo scorso.
Rapportando queste considerazioni al nostro vivere quotidiano ecco che la rappresentazione di questa guerra in Ucraina, onnipresente da oltre un mese su tutti i nostri schermi, fissi e mobili, ci appare per quello che è realmente. Una sorta di “Cloaca maxima”. Un collettore fognario sotterraneo e digitale dove si scaricano tutte le informazioni, notizie e suggestioni, vere o false che siano, che rappresentano insieme il prodotto e lo scarto. Entrambi derivati ultimi delle budella di questa nostra società informativa, sempre più digitale e iper-connessa.
Infatti questa guerra in Ucraina è la prima guerra, nel nostro occidente, ad essere raccontata in tempo reale attraverso la rete e sui social media. Un fiume ininterrotto composta da una miriade di informazioni apparentemente senza filtri, che invece utilizzano “filtri” alla sorgente e nel corso della loro trasmissione e sono ben difficili da comprendere, si sta riversando su di noi da settimane. Le notizie vengono diffuse costantemente e praticamente ovunque e attraverso internet o i social media, spesso in modo paritetico o semi-paritetico, tutti condividono articoli, video, documenti e tutti si esprimono con opinioni di parte che sono sempre meno avvalorate da dati e prove. Si propaga e diffonde una valanga di informazione senza nessun controllo o, peggio, molto ben controllata e artefatta che si trasforma in altrettanta disinformazione.
Questo fragoroso «rumore di fondo» alimentato dalle “fake news” prende sempre più spesso il sopravvento sui fatti reali, disorientando e influenzando le opinioni e le decisioni di chiunque.
Siamo di fronte alla “tempesta perfetta” informativa e digitale in cui sia i soldati e combattenti sul fronte che la popolazione civile che muore sotto le loro bombe nei territori coinvolti, insieme ad esperti o semplici cittadini, di ambo le parti in guerra o che si trovano in ben altre lontane parti del mondo, sono contemporaneamente in grado di diffondere, ma anche manipolare, qualsiasi informazione. Quella che nell’800 lo stratega prussiano Carl von Clausewitz definiva “guerra reale” trova oggi la sua applicazione più radicale.
L’ecosistema informativo dei social media permette ad ogni persona di diventare soggetto/utente interessato e partecipe, in maniera più o meno attiva, al conflitto in Ucraina. Quindi ognuno di noi può essere un attore parte della guerra moderna, che ormai si combatte su molti e diversi fronti. Con armi diverse.
Cade quindi del tutto la separazione tra comunicati governativi, agenzie e testate giornalistiche, cronisti o inviati di guerra (liberi o embedded che siano) e il loro pubblico. Quello stesso pubblico che, nelle logiche della comunicazione moderna rappresenterebbe il “target” privilegiato dell'azione, assume il doppio ruolo di “mezzo e messaggio”. Rappresentandosi come testimone diretto che comunica i fatti o trasformandosi in lontano fruitore delle notizie che però resta comunque soggetto attivo dell’informazione in quanto tali informazioni è in grado di riverberarle, riprodurle e anche distorcerle esponenzialmente.
Contemporaneamente non esiste più, in tutti questi passaggi, nessun filtro critico che sia universalmente riconducibile alla realtà fattuale o di un controllo di mediazione e verifica univocamente esercitabile durante il transito delle informazioni. Non esistono più organismi, istituzioni o entità critiche indipendenti per la verifica delle fonti e delle infromazioni che possano davvero dirsi “super-partes”. Mezzi e messaggi ci colpiscono come i proiettili sparati da una “collettività in armi”, nel caso capitalistico in cui viviamo. Questa nuova collettività agente, attraverso la rete e i social media, si reputa in grado di poter discutere su qualsiasi cosa e si arroga il diritto di poter combattere ogni guerra informativa, culturale, sociale, commerciale, perennemente e su qualsiasi fronte.
La natura totalmente permeabile e fluida dell’ecosistema informativo rappresentato dai social media è, per tutti questi motivi, il terreno più fertile per le azioni di propaganda e disinformazione. I social network assumono oggi alta rilevanza politica e sono strumenti che, alimentando classici “story telling” narrativi, modificano la percezione pubblica sull’andamento del conflitto e sulle ragioni dell’una o dell’altra parte. La troppa informazione senza controllo non alimenta più nessuna conoscenza individuale, ma anzi genera una profonda ignoranza collettiva. Nel senso che si ignora la distinzione tra vero e falso. Ignoranza di massa che la comunicazione mirata e la disinformazione, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, utilizzano per l'esercizio del potere da parte di uno Stato. L'informazione diventa quindi uno strumento al servizio dei potenti meccanismi del sistema. Al pari dell’economia, della diplomazia, della cultura e delle forze armate. Per uno Stato, o una superpotenza, vincere la guerra dell’informazione, nello spazio virtuale, può condizionare l’andamento di un conflitto ed il suo esito militare e, soprattutto, politico ben al di là dell’esito finale degli scontri sul campo.
E, facendo parte dei meccanismi del sistema, anche quelli che dovrebbero essere massimi organismi pubblici ad ampia rappresentanza, come ONU e Consiglio Europeo, diventano in qualche modo parte in causa nei conflitti moderni. Scontando la presenza di opposte fazioni e poteri al loro interno che, anche grazie a meccanismi di veto o di voto pensati in epoche storiche ben diverse, prevedono sempre la salvaguardia degli interessi delle maggioranze o di chi aggrega intorno a se il potere del più forte tra l’una o l’altra delle parti in conflitto.
Alla luce di queste considerazioni credo sia evidente quanto gli Stati ed i leader politici, di questa guerra tra Russia e Ucraina (ma anche del resto del mondo) si siano impegnati nella più dura delle “Information Warfare”. Bisogna quindi riconoscere che se la propaganda e la disinformazione sono strumenti utilizzati da tutti i governi, compresi quelli democratici occidentali, per i loro obiettivi di politica estera, tradizionalmente hanno nei regimi autoritari o autocratici, una collocazione dottrinale ben precisa.
La disinformazione di matrice occidentale e prettamente americana, legata ai conflitti precedenti di cui ho parlato all’inizio, si unisce all’esperienza sovietica e russa di questi ultimi 70 anni che ben contempla alcuni tra gli esempi migliori di utilizzo della “disinformazia”. Dobbiamo alcune delle migliori analisi intorno a questo tema a Lawrence Martin Bittman, professore di Boston morto nel 2018. Brittman fino alla sua morte si è occupato di intelligence tra le due superpotenze in epoca di “guerra fredda” e in entrambi gli emisferi. Ha vissuto e lavorato in America per oltre cinquant’anni ma, nella prima metà della sua vita, quella più breve e tumultuosa, era cresciuto in Cecoslovacchia con il nome di Ladislav Bittman.
Bittman è stato uno dei maggiori esperti di disinformazione sovietica e ha descritto in diversi suoi lavori i primi esperimenti di disinformazione e propaganda russa che risalgono agli inizi del secolo scorso quando la Čeka (corpo di polizia politica antenato del futuro KGB) creò e diffuse falsi rapporti per screditare la diaspora filo-zarista e filo-repubblicana all’estero, soprattutto in Francia.
In Unione Sovietica la disinformazione e la propaganda durante gli anni settanta, dopo la nomina di Yuri Andropov a presidente del KGB, crebbero sia per qualità che per intensità. Sotto la sua guida le campagne di informazione di Stato divennero infatti “misure attive”, vale a dire attività di guerra politica aventi lo scopo di modificare specifici eventi interni o internazionali al pari di sabotaggi, omicidi o azioni che prevedessero l’infiltrazione di agenti e spie russe sotto copertura negli apparati istituzionali dei paesi avversari.
Andropov divenne uno dei massimi sostenitori dell’importanza della “maskirovka” (tecnica di camuffamento) e della “risposta comportamentale indotta” ossia della diffusione di notizie false in grado di confondere l’avversario per spingerlo a valutazioni e azioni errate. Per poter bloccare o deviare i processi decisionali di avversari politici (sia interni che esterni) era anche indispensabile poter colpire l’opinione pubblica che era il loro riferimento, quindi anche l’elettorato. Sempre diffondendo nel modo più massivo e attraverso i mezzi di comunicazione e la stampa, le false informazioni. Fra le varie campagne di disinformazione in chiave anti-occidentale messe in atto dai sovietici una degna di nota è di certo l’operazione “Neptune”, avviata nel 1964, che intendeva screditare i governi dei paesi Nato (in particolare la Germania Ovest) attraverso la notizia falsa che questi continuassero ad utilizzare in Europa orientale ex-informatori nazisti che avevano evitato di essere processati per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nell’ambito di tale campagna il KGB arrivò a finanziare e produrre, in diversi paesi del blocco sovietico, una serie di documentari e produzioni televisive, con soggetti di fantasia ma basati su fonti a loro dire storiche. Come ad esempio una serie di documentarti sulla ricerca dei tesori scomparsi del Terzo Reich affidata agli agenti dei servizi segreti occidentali ex-nazisti, che prevedevano sceneggiatori, registi e attori del tutto ignari dello scopo reale di tali produzioni.
Foto: uno dei documenti originali dell'Operazione Infektion.
Un’altra azione di disinformazione sovietica abbastanza nota è sicuramente l’operazione “Infektion” svolta insieme alla Stasi, la polizia segreta della Germania Est. Questa operazione è conosciuta anche come “Operazione Denver” e venne varata nel 1985 con lo scopo di screditare gli USA attraverso la diffusione della notizia, rivelatasi totalmente falsa, che affermava come il virus HIV fosse stato creato nei laboratori dello USAMRIID (l’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell'esercito americano) sito a Fort Detrick, nel Maryland.
Per inciso, è interessante notare come proprio su questo laboratorio, che è stato chiuso nel 2019, si scaglino anche alcune recenti tesi complottiste che lo ritengono implicato nella creazione in laboratorio del virus Covid19, in opposizione ad altre tesi avverse che attribuiscono tale colpa ai laboratori cinesi di Wuhan.
Con la fine della Guerra Fredda l’importanza della disinformazia come strumento politico sovietico non è certo diminuita. Anzi si è venuta via via affermando una logica di “guerra ibrida di nuova generazione” causata dalla necessità, per le forze armate russe, di adattare i propri mezzi e metodi di combattimento alle nuove sfide del XXI secolo che li vedevano arretrare nei nuovi scenari strategici mondiali nel confronto con gli USA e anche con superpotenze emergenti come la Cina.
La differenza rispetto agli anni dell’Unione Sovietica risiede nell’evolversi della strategia militare con strumenti bellici che includono i sistemi di comunicazione e i mass media e considerano la rete, i new media e i social media come nuovi elementi dominanti i conflitti. In questi scenari da “New Generation Warfare” la componente strategica della comunicazione diventa fondamentale e in grado di attuare schemi di destabilizzazione sociale dell’avversario grazie ad azioni che sono atti di guerra preliminari e attacchi anche, in parte, sostitutivi dei veri e propri conflitti armati.
Se in epoca di guerra fredda in Russia era solo il KBG ad occuparsi di simili attività attraverso i media tradizionali oggi ci sono vari apparati sovietici. I più importanti sono il GRU (il servizio segreto militare russo) e l’SVR (il servizio di intelligence estera), a cui si affiancano Agenzie statali di copertura, come la Internet Research Agency o società private definite vere e proprie “Troll Farm”. Oltre a queste entità che hanno una veste in qualche modo più lecita e ufficiale esistono anche i gruppi e collettivi hacker, che sono in grado di compiere il “lavoro sporco” necessario per le moderne guerre cibernetiche. Tra questi gruppi di Cyber Hacking spiccano i noti Fancy Bear e Cozy Bear.
L'uso di tutto questo insieme di elementi di destabilizzazione caratterizzanti ogni moderno conflitto ibrido, sono conosciute con il termine di “Dottrina Gerasimov” (dal nome del loro ideatore, il Capo di Stato Maggiore sovietico generale Valerij Vasil’evič Gerasimov, Ed è sotto tale logica, utilizzata senza scrupolo dalle superpotenze, che secondo analisti indipendenti si sono sviluppate anche le primavere arabe, ritenute guerre ibride orchestrate dai servizi di intelligence degli Stati Uniti, come anche l’occupazione della Crimea che ha posto le basi per l’attuale occupazione e guerra in Ucraina.
Seguendo il solco della dottrina Gerasimov le campagne di disinformazione e propaganda russe sono diventate sempre più pervasive in occidente. E lo sforzo comunicativo del Cremlino ha perseguito vari obiettivi, come influenzare le presidenziali USA del 2016 per favorire la vittoria di Donald Trump o le elezioni francesi del 2017 per favorire le forze di Marine Le Pen. A queste azioni si è affiancato anche, in tempi ancor più recenti, un tentativo di polarizzazione del dibattito pubblico europeo su temi come pandemia e immigrazione.
Il fenomeno è stato analizzata in un report noto come “Graphika Secondary Infektion” che dimostra, con dovizia di dati, i tentativi di interferenza russi. In soli 6 anni, dal 2014 al 2020, centinaia di account social (prevalentemente su Twitter) riferibili alla regia di Mosca hanno, secondo tale analisi, condiviso diverse migliaia di contenuti sugli argomenti citati, la maggior parte dei quali supportati da documenti e foto contraffatte o da bot che avevano il compito di aumentarne la viralità e la diffusione.
La guerra in Ucraina non sta costituendo di certo una eccezione. Infatti sembrano essere centinaia i siti che diffondono propaganda e disinformazione pro-russa o anche pro-ucraina con contenuti ripresi da migliaia di utenti su Telegram, Twitter, Facebook, Instagram e TikTok.
La domanda finale che dobbiamo porci tutti al riguardo è quanto ognuno di noi sia oggi realmente in grado, di fronte al diluvio di informazioni, di esercitare giudizio e senso critico e farsi una propria opinione, in modo autonomo e consapevole. E quanto invece disinformazia e propaganda, da ambo le parti, siano stati in grado di influenzare tutti, condizionando il dibattito europeo sulla guerra in Ucraina, le opinioni pubbliche del Vecchio Continente e le azioni dei governi occidentali.
Purtroppo la risposta la sapremo solo alla fine di questa assurda guerra. Fine che si spera giunga presto. Perché, come avvenuto per tutti i conflitti e in particolare per quelli moderni, quello che dovrebbe essere il corretto “debunking” in grado di destrutturare tutte le narrazioni di parte viene fatto purtroppo sempre a posteriori. Da commissioni indipendenti di organi internazionali (OSCE, Nazioni Unite ecc) o da team di giornalisti investigativi altamente qualificati.
Foto all'inizio dell'articolo:
Troupe della TV cecoslovacca si prepara per le riprese subacquee alla ricerca del tesoro nazista in un documentario del 1964, rivelatosi una "fake news" del KGB.
Fonte: ARCHIV BEZPEČNOSTNÍCH SLOŽEK (CZECH SECURITY SERVICES ARCHIVE)
- Arnaldo Pontis