Culture

“Fuck me blind”: il nuovo spettacolo di Matteo Sedda nella rassegna “Fuori Margine”

Matteo Sedda fuckmeblind


CAGLIARI. Matteo Sedda, danzatore e coreografo  sardo con una importante carriera nella compagna del  belga Jan Fabre, è ritornato nella sua Cagliari per presentare il suo nuovo spettacolo “Fuck me blind”,  ospite all’interno della bella rassegna di danza contemporanea  “Fuori Margine” (www.fuorimargine.eu). 

Fuck me blind  è un lavoro di forte impatto visivo e sonoro,  ispirato a “Blue”, ultimo film autobiografico del regista londinese Derek Jarman girato nel 1993.

Derek Jarman: era un noto regista che morì, ormai quasi cieco,  nel 1994,  a causa di un’infezione da  citomegalovirus  correlata all’AIDS che gli consentiva di vedere soltanto i toni del blu.  E  quel suo ultimo film è considerato un prezioso testamento artistico. Blue si compone di una lunga angosciante, singola e cieca schermata di “International Klein blue “: la particolare tonalità blu oltremare, che simula il pigmento a base di lapislazzuli dei codici miniati medievali,  creata nel 1960  dall'artista francese Yves Klein.  Nel film, per tutti i 76 minuti della sua durata,  serve da sfondo alla splendida soundtrack di musica elettronica, composta dal musicista Simon Fisher-Turner  e da diversi altri importanti musicisti della scena elettronica contemporanea del periodo, tra cui i Coil. Da quella soundtrack onirica  emerge la voce recitante fuori campo di  Derek Jarman  che parla   della sua vita nella casa  “giardino” sulla spiaggia di Dungeness,  residenza e luogo elettivo degli ultimi anni di vita del regista. Che accoglieva una grande installazione di land-art,  composta da pietre, selci, conchiglie,  detriti di legno trasportati dal mare, piante grasse, cespugli selvaggi e fiori, che lui ben descrisse  anche nel libro “The Garden”.

Amore e HIV: questo  lavoro  di Matteo Sedda trae quindi  linfa vitale dal migliore background culturale di Derek Jarman ma non si ferma ad  un banale tributo.  Seppure affronti  un immaginario  sociale che, sotto alcuni  aspetti, Matteo, esattamente  30 anni dopo,  condivide con Derek.  Un immaginario collettivo che, fortunatamente,  non è più immerso nella paura o nell’attesa della morte a causa dell’AIDS.  L’HIV, grazie ai progressi scientifici, oggi non è più un virus  letale e  le moderne terapie consentono  alle persone che ne sono affette di vivere a lungo la propria vita al pari di chiunque altro.  Ma esiste  ancora il  mondo intorno all’HIV. Un mondo condiviso dagli stessi ideali di lotta e testimonianza attiva di persone HIV positive resasi visibili come Matteo Sedda. Che è uno storico testimonial di LILA Cagliari, la  Lega italiana di lotta contro l’Aids. Persone  che con il proprio impegno lottano  contro stigma e pregiudizi che ancora oggi circondano l’HIV e anche il mondo LGBT+.   Ovviamente  Fuck me blind  non è solo questo.  Il  lavoro ci parla di amore omosessuale e HIV cogliendo appieno l’essenza e la visionarietà di Jarman.  Ma, come molte delle opere precedenti di Matteo Sedda,   la sua bellezza si rivela nel gesto creativo e performativo del fare artistico e coreografico, nella sua costante tensione e intima costruzione e decostruzione.

Lo spettacolo: la bellezza di Fuck me blind,  titolo che in italiano sarebbe un perentorio ed  esplicito: “fottimi ciecamente” si rivela infatti grazie alla padronanza e maturità che Matteo oggi ha raggiunto nell’uso di linguaggi e codici innovativi che sono stati, per la danza, rivoluzionari.   Lo spettacolo  è, anche per questi motivi, di natura scarna ed essenziale. Con il pubblico disposto ai quattro lati di un ring quadrato nero disegnato a terra, nudo  illuminato solo dalla luce bianca dei fari di proscenio disposti in alto,  ai quattro angoli,  sopra la scena. E niente altro.  I danzatori  in scena assumono il ruolo di due pendoli  in asse,  come due metronomi  che battono il tempo in modo alternato per poi trovare la perfetta sincronia sonora durante la danza in cerchio. Un lungo ininterrotto atto d’amore, fatto di corporeità,  suono e danza.  In una  scena non teatrale scarna, a tratti quasi “Beckettiana”,  dove ogni parola diventa superflua.  Matteo ci rivela in questo suo  lavoro, forse il più maturo e compiuto tra le cose fatte finora,   il frutto di un percorso personale di ricerca coreografica che è  in grado di  far tesoro delle migliori  esperienze neo-espressioniste del “dance theatre” e della performing art  d’avanguardia europea contemporanea. Attingendo a  Pina Baush  fino ad  approdare  alla scuola belga più recente di nomi come Alan Platel, che della Baush fu anche allievo, di  Teresa de Keersmaeker e, ovviamente,  di Jan Fabre che Matteo conosce molto bene, essendo stato a lungo uno dei primi ballerini della sua compagnia.  

Per mettere in scena il  suo “ Fuck me blind”  Matteo Sedda si è avvalso di poche persone. Il bravo danzatore e coreografo Marco Labellarte che lo accompagna in tutta la perfomance e di Margherita Scalise per la  drammaturgia e il disegno luci.  Ovviamente trattandosi di un  viaggio circolare sia visivo che sonoro dal passo incessante, la musica del compositore Gio Megrelishvli è elemento fondamentale  che descrive  la costruzione di  un giardino megalitico di pietre risonanti disposte in circolo  che sarebbe certamente piaciuto al nostro  Efisio Sciola. Ma di questo vi parlerò più avanti.

Il pubblico viene coinvolto nello spettacolo in quanto ne è parte avvolgente e lo sguardo dei presenti  percorre questo giardino sonoro insieme ai danzatori,  quasi alla cieca,  Si entra tutti nella lunga  sequenza onirica di cerchi concentrici, mentre si osservano i due  corpi maschili in movimento centrifugo e centripeto al tempo stesso. Una lunga ininterrotta danza ipnotica di amore rituale e scontro tribale fra due persone dello stesso sesso da cui è difficile, forse  quasi impossibile  per chi vi assista, distogliere lo sguardo anche solo per un istante.

In questo ring, per tutta la breve ma intensa  durata della performance i due danzatori Matteo  e Marco ruotano  per incontrarsi,  confrontarsi e scontrarsi, in modo ripetitivo e sensuale, con una  cadenza ritmica di passi in movimento circolare sincrono, crescente e decrescente. Sempre in marcia, lungo cerchi disegnati nel vuoto e sulla nuda terra. Cerchi con circonferenze concentriche a spirale oppure esterne e tangenti, quasi a simboleggiare l’infinito. Cerchi dove il baricentro corporeo  di ognuno dei danzatori è scisso in un agire  dicotomico.  Con il basso ventre,  “chackra”  tantrico dell’istinto e del sesso, che muove bacino e gambe ad una velocità allarmante. Mentre il baricentro superiore, “yantra” all’altezza  del cuore, disvela con dolcezza i  gesti coreografici di braccia, mani, sguardi, visi e sorrisi che si intrecciano.  Anche questa essenzialità geometrica della scena, una sorta di “mandala”  in cui si inscrivono i cerchi sulla sabbia  e  potrebbe essere un “quadrato magico”  assume la funzione simbolica  di tramite esoterico e misterico con un mondo che è molto vicino all’immaginario onirico di Jarman.   

Ma questi due danzatori  sono anche due atleti  lottatori  in una gara di resistenza fisica. Come due poli magnetici rotanti e diametralmente opposti che si attraggono e respingono, sempre con lo  sguardo fisso dell’uno sull’altro,  schiavi gladiatori dentro  un gioco di catene invisibili e di amore,  cieco e blindato,  tra due persone che si vedono solo tra loro. Mentre tutto il resto scompare, pubblico compreso. Credo che il senso di questo amplesso blindato, sempre di corsa e sopra un quadrato nero immerso nella luce bianca e accecante sia, alla fine,  tutto qui. Per disegnare una sezione aurea.

La musica: trovo sia necessario parlare in modo approfondito della musica che, al pari del gesto scenico essa  sorregge tutta l’architettura. In una performance muta di questo tipo è vitale  la soundtrack composta dal  bravo compositore elettronico  Gio Megrelishvli.  Una  splendida colonna sonora di ricercati suoni elettronici di sintesi che rappresenta  elemento vitale nello spettacolo. Quanto lo era la musica dentro Blue e in molti dei lavori di Jarman.

La  colonna sonora è talmente portante che, come la coreografia, è  fondamenta e loop costante. Musica anch’ essa  ciclica, futuristica e misteriosa  come i “cerchi nel grano” che  si disegnano sotto  il  camminare incessante dei due danzatori.  Musica che entra in scena progressivamente fino a  sovrastare  il tutto in un  intrecciarsi sinusoidale di frequenze che guida e accompagna ogni passo dei danzatori dentro un  crescendo ancestrale e tribale.

Musica che diventa un tappetto sonoro, una danza pulsante di “Dervisches tourneurs” intorno al fuoco (dove anche  la ritmica non è composta da semplici suoni di  drum machine ma pulsazioni “loop generated anch’esse)  che unisce in modo  citazionista tutto l’immaginario sonoro elettronico coevo a Jarman e al periodo del film Blue.  

Nascono  così momenti sonori particolari che disegnano risonanze armoniche epiche e marziali,  stile Laibach,  che si sovvrappongono a sonorità elettroniche profonde con tappeti di droni che attingono a piene mani dalla corrente "esoterica" dell'industrial britannico degli anni novanta, rappresentata  da  Coil,   Throbbing Gristle, Nurse with wound  e Current  93.  E ovviamente  ogni riferimento è voluto e sapientemente cercato dal musicista Gio Megrelishvli  che dimostra di avere alle spalle una profonda conoscenza della ricerca sonora che è la stessa di Jarman e dei musicisti che collaborarono con lui. Non  caso i Coil , John Balance e Peter Christopherson, contribuirono alla splendida colonna sonora di Blue, dopo aver composto, quasi dieci anni prima nel 1985, la straordinaria soundtrack di un altro mitico film di Jarman:  “The Angelic conversation”.  

Con tutti questi presupposti di immaginario sonoro lo spettacolo si rivela quindi davvero rivoluzionario perché unisce il gesto scenico più scarno ed essenziale allo sforzo atletico  di cui possono essere capaci solo degli  allievi di Jan Fabre come Matteo.  Sforzo  che è certamente il fulcro della ricerca di  questa neo-danza di pulsione vitale  e, al tempo stesso,  mortale.

Nuova danza  dove ogni sfida e sempre più ardua  e raggiungere la perfezione sempre più difficile. Sfida nella quale invece, a mio avviso e nel caso di “Fuck me blind” Matteo pare riuscire appieno. Chapeau.