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Militare morto di cancro, per lo Stato non è vittima del dovere: condanna dei giudici

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CAGLIARI. Maresciallo dell'Esercito, in servizio dal 1977 al 23 luglio 2012, data della sua morte. Ucciso da un male comune a tanti soldati. In divisa ha partecipato a numerose missioni in zone a rischio. Non per il nemico armato, ma a causa di quello invisibile, che ha colpito  molti militari che si sono misteriosamente ammalati. I suoi eredi hanno chiesto che venisse riconosciuta la causa di servizio. I medici della Difesa, senza spiegare perché, l'hanno negata. Ma il Tar ha stroncato il loro verdetto, per l'ennesima volta: il rigetto della richiesta di indennizzo non è valido. Tutto da rifare.

Perché se rifiuti anche il riconoscimento economico a chi è morto mentre ti serviva,  tu, Stato, devi spiegare perché lo fai. E devi portare motivazioni valide che escludano il  nesso tra il servizio e il decesso. Non puoi limitarti a dire che il collegamento non è dimostrato e scaricare sui parenti del morto l'onere di trovarlo. 

Questo hanno stabilito i giudici della prima sezione del Tribunale amministrativo della Sardegna ieri, 8 ottobre, sul ricorso presentato dagli avvocati Caterina Usala e Antonio Carta, che agiscono per conto dei familiari di un maresciallo del quale per privacy, negli atti giudiziari, è omesso il nome. I legali degli eredi hanno sconfitto quelli del ministero della Difesa e delle Finanze: i rappresentanti del no dello Stato. 

Tema del contendere: i ripetuti pareri - il primo del 2013 - con i quali per il maresciallo morto è stato respinto il riconoscimento di status di "vittima del dovere". Che, almeno, avrebbe garantito un ristoro economico a coloro che lo hanno pianto. 

Contro si è espressa prima la direzione generale della Previdenza Militare, della Leva e del Collocamento al Lavoro dei Volontari congedati. E poi il Comitato di Verifica per le Cause di Servizio. Le motivazioni della decisione? Non sono state fornite: semplicemente ci si è limitati a dire che un decennio di missioni - undici in tutto - non bastano a collegare un tumore all'attività militare. 

Ma a quanto pare anche i giudici del Tar si sono stufati di questo andazzo. Non entrano nel merito delle diagnosi - non è il loro ruolo - ma in quello delle procedure sì. E nel dispositivo fanno riferimento all'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale lo Stato non deve limitarsi a dire che non ci sono prove - come ha fatto per decenni - ma deve trovare quelle che dimostrino che la morte è scollegata dalle missioni. 

Ai familiari dei militari morti basta sostenere che esiste la probabilità che il loro caro sia morto per causa di servizio. E in questo caso lo hanno fatto. 

Nella sentenza c'è scritto così: "Gli eredi della vittima hanno, infatti, osservato come, nel corso delle undici missioni all’estero, svoltesi in un arco di tempo decennale, il Maresciallo -OMISSIS- abbia svolto attività che lo hanno portato spesso a contatto con sostanze nocive, in particolare gli insetticidi utilizzati durante le disinfestazioni, e hanno documentazione che depone in tal senso (in particolare, il Foglio matricolare depositato in data 6 luglio 2020). Viceversa la lettura dei pareri resi dal Comitato di Verifica evidenzia che quest’ultimo si è sostanzialmente limitato a rilevare l’assenza di elementi capaci di ricollegare con certezza la patologia al servizio svolto, omettendo qualsiasi indicazione sulle ragioni per le quali sarebbero da considerare, a tal fine, irrilevanti gli elementi addotti dai richiedenti: in tal modo il Comitato ha omesso di assumere una motivata posizione in ordine alle “evidenze statistiche” indicate in domanda, contravvenendo a una suo preciso onere motivazionale".

Un verdetto che arriva all'indomani della morte del maresciallo dei Granatieri di Sardegna Marco Diana, morto a 50 anni: si era ammalato di tumore durante il servizio. E nonostante varie peripezie - anche giudiziarie - che lo hanno coinvolto, era assurto a paladino del riconoscimento dei diritti dei militari malati.