Giustizia per George Floyd, per la sua famiglia, per l'America: è l'accorato appello di Bob Dylan, voce iconica da oltre mezzo secolo della canzone di protesta, davanti all'uccisione da parte della polizia bianca di Minneapolis dell'ennesimo afro-americano disarmato. "Mi ha nauseato senza fine vedere George torturato a morte in quel modo. È stato oltre l'orrore", ha raccontato Dylan in un'intervista al "New York Times" concessa per telefono dalla sua casa di Malibu in California. L'intervista arriva ad una settimana dall'uscita, il 19 giugno, del nuovo album "Rough and Rowdy Ways" il primo di canzoni originali da "Tempest" del 2012.
La lista dei 10 brani, pubblicata ieri 11 giugno su Instagram, include i singoli usciti nei mesi della pandemia "False Prophet", "I Contain Multitudes" e la maratona di 17 minuti "Murder Most Foul" sull'assassinio di Kennedy. Le nuove canzoni, composte nella clausura della quarantena da coronavirus, includono titoli come "Crossing the Rubicon" e "Mother of Muses", "Goodbye Jimmy Reed" e "Key West", questi ultimi due rispettivamente omaggio al bluesman del Mississippi e alla triade "Ginsberg, Corso e Kerouac".
Premio Nobel per la Letteratura, il cantautore settantanovenne di Duluth, Minnesota, è noto per essere autore di brani di denuncia sull'arroganza dei bianchi e dell'odio di razza come "George Jackson", "Only a Pawn in Their Game" e "The Lonesome Death of Hattie Carroll". E proprio nella ballata "Hurricane" del 1976 ha cantato contro la brutalità della polizia contro le persone di colore.
Ma durante l'intervista Dylan si è riferito anche alla pandemia, che il giornalista definisce "biblica": "Credo che sia l'anticipazione di qualche altra cosa", ha spiegato, "l'estrema arroganza può avere delle punizioni esemplari. Forse siamo alla vigilia della distruzione, ci sono molti modi in cui poter pensare a questo virus. Penso che l'unica cosa da fare sia lasciargli compiere il suo percorso".