Culture

"O Sardigna" degli Istentales: luogocomunismo paraidentitario, ce n'era bisogno (così)?

CAGLIARI. Marketing artistico antifrastico al contrario. Cioè: dico (canto) una cosa positiva per farla criticare, così si scatenano reazioni alla critica e quindi difesa per il mio lavoro. O distillato analcolico, al profumo di mirto trascinato dal maestrale, di banalità quasi commoventi per l'innocenza con la quale vengono declamate, su un tappeto di tenores e launeddas e un rassicurante quattro quarti. Tertium non datur. Almeno alle orecchie di chi ha ascoltato e scrive. Perché forse gli Istentales con il loro "O Sardigna", coinvolto un poliedrico Elio che all'uopo assume un carattere appena bidimensionale, volevano davvero scrivere un Inno alla Sardegna. 

Ma ce n'era bisogno? Anzi. Questa domanda venuta di getto deve essere riformulata. Perché di Sardegna e dei suoi pregi è necessario occuparsi sempre. L'interrogativo allora è: ce n'era bisogno...così?

Non manca niente, ma proprio niente, del luogocumunismo in salsa paraidentitaria: velluto, bonette, pozzo sacro, mare, granito, anziane sorridenti, quattro mori, incendi (ci stava, a questo punto, la citazione della Carta de Logu), orgoglio, fierezza, murra, l'emigrato nostalgico ma pronto a combattere. E addirittura il ramoscello di mirto adagiato sulle pagine usate per vergare il testo dell'autore, Gigi Sanna. Ed eccolo, il testo (tradotto). 

O Sardegna stimata, dai il tuo cuore per la gente, mostra sempre la tua forza. E non arrenderti mai. Sei l’orgoglio valente, di una terra stupenda. Gente seria e leale, che non tradisce mai. O Sardegna sovrana, sei in mezzo al mare. Nelle nostre donne, può sempre contare. Cercano da tempo di farti del male, ma tu sempre guerriera porgi l’altro fianco.

O Sardegna ferita, mai il colpo di grazia, pronta a dare la vita per salvare l’amico. E in panni di seta, la bandiera di pace, i nostri mori bendati chiedono libertà. O Sardegna sei patria di gente di valore, che non trovando lavoro è costretta a emigrare. Benvoluta da tutti, sempre sia fatto onore, piange quando parte e non vede l’ora di tornare.

O Sardegna, i sardi stanno provando a riunirsi, anche se con malumori.  Sono pronti a difenderti, stanno cercando di lasciare alle nuove generazioni quello che abbiamo conosciuto dai nostri antenati. O Sardegna ti lascio, terra forte e gentile. Se hai bisogno di me, sono pronto ad affrontare a nascere e a invecchiare, con onore e riguardo ti ringrazio di cuore, io e tutto il popolo sardo. 

Insomma: popolo ardito legato alle radici, nella terra più bella del mondo e pronto a tutto per essa. Una convinzione che, da sempre,  sterilizza lo stimolo a fare meglio. Se è tutto così "perfetto", perché impegnarsi? Chi scrive conosce sardi che si attaccano alla canna della sovvenzione statale, vestita da ammortizzatore sociale, e di combattere per la propria terra (di mare, galana, del maestrale eccetera) non gliene frega niente. E sa che ci sono sardi che buttano l'immondizia in cunetta, per dire. O se sanno che l'industria predatrice intossica le acque si girano dall'altra parte, perché finché c'è quella - inattiva - c'è la cassa integrazione. 

Il featuring con Elio, poi. Viene servito un tagliere di note conosciute su un piatto di do-re-mi-fa-se-a-das, con una spruzzata di "noi da soli ce la facciamo" ma comunque sempre memori dell'abbraccio ospitale al continentale adottato perché senza di lui non ce la possiamo fare. 

Un altro testo diceva: Oh Sardigna custa est d'ora ke ti deppes iskidare e nos Sardos totu impare si ki pesent in bon'ora. Sa rikesa sunt furande in d'una manera indigna. 

In chiusura, una precisazione. Quando fu data la notizia della produzione di Macbettu, un notissimo critico letterario disse che "un Macbeth in sardo era proprio ciò di cui non si sentiva l'esigenza". Il successo è stato planetario. E si è dovuto ricredere. La speranza è di doverlo seguire.