Storie

Beirut, voce del verbo crollare (di Matteo Porru)

 

 

CAGLIARI.  Quelle duemilasettecentocinquanta tonnellate di nitrato di ammonio ci sono esplose davanti ovunque, sui social e nei telegiornali, quasi che quell’onda d’urto e di devastazione, in qualche modo, potesse arrivare anche a noi. Sì, perché l’unica cosa certa, nel mare di ipotesi che stanno nascendo e sono nate in queste ore su questa catastrofe, è che Beirut, adesso, è distrutta ed è distrutto uno dei cuori pulsanti dell’economia libanese, il porto.

Che sia un altro duro colpo, per un popolo già devastato dalla pandemia e da grossi problemi economici, non c’è dubbio. Ma se una parte della città è ridotta in macerie e migliaia di persone piangono i loro cari, le loro case e le loro vite, c’è un’intensa e costante indole che spinge ognuno a continuare a vivere. Basta vedere i filmati amatoriali, le telecamere: nella sua casa distrutta, una signora suona il pianoforte, trasferendo su ogni nota il dolore e la voglia di rialzarsi che non le fa tremare le dita. Un padre protegge il figlio che piange, dopo averlo preso in braccio e nascosto sotto il tavolo sopra il quale, forse, lavorava poco prima. Una donna, nell’istante che precede l’onda d’urto, si sporge verso il vetro che crollerà poco dopo, tentando di proteggere tre bambini dalle schegge; la casa che hanno intorno è un temporale di detriti e polveri che lei cerca di non respirare.

C’è chi piange, chi cerca, chi muore e chi resta. Il capitale umano si rivela nelle tragedie, nelle disgrazie, in quelle cose che accadono e che stravolgono il mondo. Sono tante, eppure sono poche quelle che riescono a far rumore. Come quello del boato di una città che urla. Come il silenzio di una città che prega.